Quando ci troviamo dinanzi al pericolo vengono attivate risposte fisiologiche da parte del nostro organismo, conosciute come attacco, fuga e congelamento (il freezing) (Cannon, 1932). Gli specialisti esperti del trauma hanno definito queste reazioni risposte neurobiologiche alla minaccia. Secondo una teoria largamente riconosciuta, la parte pensante del cervello, nota come neocorteccia, verrebbe dominata dal mesencefalo (in particolare l'amigdala) durante i momenti di paura. Questo significa che il mesencefalo va in uno stato di allerta elevata indicando al sistema nervoso autonomo di rilasciare sostanze chimiche perché il corpo si prepari all'attacco o alla fuga. Quando non è possibile né attaccare né scappare, il sistema limbico coinvolge il sistema nervoso parasimpatico per generare una risposta di congelamento o di collasso che si traduce in immobilizzazione, riduzione del respiro e riduzione del metabolismo. Negli esseri umani la reazione di freezing è associata al fenomeno della dissociazione. Le minacce possono includere sia le minacce reali come una possibile aggressione o violenza fisica, ma possono essere anche semplici stimoli come il rumore del flash, il ronzio del ventilatore o lo scoppiettio del motore. Anche stimuli neutri possono attivare in un soggetto con vissuto traumatico le reazioni fisiologiche di attacco, fuga e congelamento. La reazione di compiacenza Nel 2000 (Taylor et al), venne identificata la reazione allo stress denominata "accudisci e sii amichevole" nelle femmine. I ricercatori hanno ipotizzato che il prendersi cura associato alla nutrizione avrebbe la funzione di proteggere se stesse e la prole, mentre l'essere amichevoli avrebbe il ruolo di stabilire e mantenere una rete sociale. Questa valutazione partirebbe dall'assunto che le femmine avrebbero un ruolo significativo nell'accudimento e utilizzerebbero la risposta "accudisci e e sii amichevole" per stare al sicuro e abbassare lo stress. Secondo gli esperti, la reazione di fuga nelle femmine sarebbe stata inibita per cui questo avrebbe attivato risposte alternative collegate all'accudimento in medesime condizioni di stress. Successivamente nei dibattiti sul trauma viene riproposta la reazione di compiacenza. Questo termine è associato a Walker (2003) che avrebbe identificato i soggetti predisposti alla risposta compiacente come coloro che fondono i loro bisogni, desideri e richieste con gli altri in relazioni co-dipedenti. Nelle situazioni di stress, questi individui reagiscono con la rinuncia ai loro diritti e ai loro spazi, diventando accondiscenti e ubbidienti verso gli stessi promotori della loro sofferenza. Walker avrebbe aggiunto questa risposta a tutte le altre reazioni ad eventi traumatici come attacco, fuga e congelamento. Ad oggi, la risposta di compiacenza viene riconosciuta come una modalità reattiva ad un'esperienza traumatica ma non viene definita una strategia di difesa. Ad oggi esistono molte connotazioni negative collegate a questa reazione al trauma. Si assume erroneamente che ad adottare questa risposta siano esclusivamente donne, persone compiacenti, che mancano di identità. La compiacenza si è trasformata in finzione In situazioni di minaccia e pericolo le persone possono accedere a differenti meccanismi di gestione per salvarsi, questo implica l'attivazione di strategie complesse. Sia bambini che adulti riportano di aver "finto" in situazioni traumatiche per salvarsi la vita. In situazioni di vita o morte dove non è possibile scappare, un individuo potrebbe fingere di essere amichevole, negoziare, trattare per poter preservare la sua stessa vita. Fingere potrebbe essere inclusa all'interno delle reazioni al trauma già elencate prima. Ci sono testimonianze di persone rimaste intenzionalmente immobili, fingendosi morte esattamente come gli animali per distrarre i predatori. In questo caso non si tratta di dissociazione ma di un'azione deliberata in situazioni di pericolo sviluppate per garantirsi la sopravvivenza. Tuttavia, il ripetuto ricorrere a questa modalità potrebbe influenzare il modo in cui interagiamo con gli altri e l'ambiente ogni volta che siamo in situazioni di stress, finendo per diventare una risposta dominante. Le conseguenze potrebbero essere la tendenza a svalutare se stessi, avere difficoltà a parlare dei nostri sentimenti, essere terrorizzati all'idea dell'abbandono, avere un senso eccessivo di responsabilità per gli altri. Potrebbe risultare funzionale imparare a riconoscere come queste "strategie" hanno avuto una funzionalità adattiva nell'esperienza tramatica originaria, tuttavia nella condizione attuale non risultano più di aiuto impattando negativamente sulla salute mentale e sulla qualità di vita. Si tratta di un lavoro di riconoscimento fondamentale per elaborare la vergogna e il senso di colpa percepiti da molti sopravvissuti per il fatto di non essere stati capaci di fuggire o di constrastare il loro carnefice nel momento dell'esperienza traumatica. È importante porre l'accento su questo aspetto, cioè che parte del processo di guarigione sta proprio nel riconoscere non solo quello che ci è accaduto ma anche che quello che abbiamo fatto era la cosa giusta da fare per sopravvivere
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Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale
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