Per quanto sia intrigante perdersi nei loop dei nostri pensieri, ruminazione e rimuginio giocano un ruolo molto importante nella nostra sofferenza psicologica e andrebbero riconosciuti adeguatamente per organizzare al meglio i nostri pensieri. In uno studio effettuato da Tasha Eurich, ricercatrice e psicologa delle organizzazioni di Harvard, sulla relazione tra autoriflessività, stress, e soddisfazione lavorativa, emergeva che al contrario di quanto si possa credere i soggetti con alti punteggi alla variabile autoriflessività mostravano livelli più alti di stress, ansia e depressione, minore soddisfazione nelle relazioni e minore percezione di controllo sulla loro vita. Il fattore più sconcertante era che più riflettevano e più gli stati emotivi negativi aumentavano. La verità è che possiamo "riflettere" per molto tempo senza trarre alcuna intuizione costruttiva e ritrovarci esattamente nel punto di partenza. Anthony M. Grant psicologo dell'Università di Sydney avrebbe rilevato che chi possiede un'elevata capacità di insight ha maggiori possibilità di costruire relazioni solide, obiettivi chiari, soddisfazione e accettazione del proprio sè. Altri studi avrebbero ulteriormente sottolineato la relazione tra buone capacità di insight e maggiore soddisfazione, costruzioni di rapporti sani, maggiore pacatezza e serenità. Tuttavia, Grant e colleghi avrebbero inoltre rilevato l'assenza di una relazione tra l'introspezione e l'insight. Questo significa che l'atto di pensare a noi stessi non è necessariamente collegato alla conoscenza di sé. Paradossalmente, è stato anche riscontrato che maggiore è il tempo impiegato a riflettere su di sé, minore è la conoscenza di sé. Il punto è che alla radice di tutte quelle qualità come l'intelligenza emotiva, l'empatia, la comunicazione fondamentali per riuscire in quello che facciamo c'è la consapevolezza di sé. Cosa facciamo per conoscerci? Ci viene automatico effettuare un viaggio introspettivo. Ogni volta che riflettiamo, potremmo provare a comprendere quello che stiamo provando per esempio chiedendoci: "Perché me la sono presa così tanto con mio fratello a cena?", possiamo mettere in discussione le nostre credenze: "Sono veramente convinta di quello in cui credo di credere?", riflettere sul nostro futuro: "Cosa mi piacerebbe fare davvero?" o, ancora, provare a capire il modo in cui attiviamo degli schemi automatici disfunzionali: "Perché finisco per criticami su ogni minimo errore commesso?". Tuttavia i risultati degli studi di Grant e Eurich confermano che questo genere di riflessività non supporta un accrescimento della consapevolezza di sè. In una ricerca è stata studiato lo stile di coping di uomini rispetto al processo di riadattamento a seguito della morte del partner per AIDS. Si è visto che chi si imbatteva in attività introspettive, come riflettere su come poteva andare avanti senza il partner, era più depresso l'anno successivo. Un altro studio su circa 14.000 studenti universitari ha messo in evidenza che l'introspezione era associata a livelli più bassi di benessere. Un altro ancora avrebbe messo in risalto che quelli che stanno ad analizzarsi troppo mostrano livelli maggiori di ansia, vivono esperienze sociali meno positive e hanno un'attitudine più negativa verso loro stessi. Pare che il viaggio dentro di sé può avere delle controversie in grado di offuscare la percezione di sé e attivare emozioni negative. Il punto è che l'introspezione può essere ingannevole nella misura in cui può regalarci la falsa convinzione di avere trovato il vero problema. Tarthang Tulku, esperto buddista, sostiene che quando riflettiamo internamente sui noi stessi, abbiamo una reazione simile a quella di un gatto affamato mentre osserva dei topi, proprio come il gatto affamato, finiamo per "piombare" su qualsiasi tipo di informazione ci passi per la testa senza mettere in discussione la sua validità. L'introspezione non è inefficace di per sé, ma dipendentemente dal modo in cui la facciamo. Nel tentativo di cercare dentro di noi i perché dei nostri comportamenti, pensieri ed emozioni, finiamo sempre per trovare le risposte più semplici e spesso poco plausibili. A spiegare questo comportamento sarebbe la presenza di un bias cognitivo innato (bias di conferma) che ci guida nel ricercare le informazioni che confermano le nostre credenze predeterminate. Il punto è che chiederci perché potrebbe semplicemente depistarci. Supponiamo ti venga chiesto di spiegare come vada il tuo rapporto con il partner. Supponiamo che l'ultima volta abbiate litigato perché il tuo partner è rientrato tardi dall'ufficio mentre tu sei rimasta/o ad aspettarlo. Per il fenomeno noto come "effetto di recenza", questa potrebbe essere l'informazione a cui hai più facilmente accesso e per questo motivo sarà questa informazione a guidarti nella spiegazione che fornirai: "Non è abbastanza presente, passa la maggior parte del tempo a lavoro", anche se quel comportamento è magari circoscrivibile ad una volta al mese. Oppure se l'ultimo episodio relativo alla vostra relazione è un weekend romantico in una spa passato magnificamente, potresti finire per sovrastimare gli aspetti positivi. L'altro fattore a sfavore dell'analisi introspettiva è l'impatto negativo che potrebbe avere sulla tua salute mentale. In uno studio britannico, a degli studenti venne chiesto il perché si sentissero giù di morale, dopo essere stati sottoposti ad un test d'intelligenza andato male. Rispetto al gruppo di controllo a cui non era stato chiesto nulla dopo la perfomance, il gruppo sperimentale mostrava emozioni negative più intense per un tempo superiore alle 12 ore dopo il test. Questo lascia ipotizzare che chiedere il perché si sentissero in quel modo incrementava la focalizzazione sui problemi e l'autocolpevolizzazione, impendendo la possibilità di andare avanti in un modo più funzionale. Se non dobbiamo chiederci perché, esattamente qual è la domanda corretta da porci per facilitare l'insight? A questa risposta avrebbe risposto lo studio degli psicologi J. Gregory Hixon e William Swann. Nella seguente ricerca veniva detto ad un gruppo di studenti universitari che due esaminatori avrebbero valutato la loro personalità sulla base dei risultati ottenuti al test fatto nel precedente semestre rispetto ai criteri di socievolezza e la capacità di suscitare interesse. Gli studenti non sapevano che, in realtà, tutti avevano avuto lo stesso risultato: un esaminatore aveva dato una valutazione positiva, l'altro aveva dato una valutazione negativa. Ma prima di effettuare giudizi accurati, ad alcuni studenti veniva chiesto di pensare perché fossero quel genere di persona, ad altri invece veniva chiesto di pensare che genere di persona fossero. Quelli a cui veniva chiesto perché mostravano resistenze alla valutazione negativa. I ricercatori avrebbero ricondotto questo comportamento al fatto che focalizzarsi sul perché portava i partecipanti dello studio a razionalizzare, giustificare e spiegare le informazioni negative che gli erano state fornite dalla valutazione. Gli studenti a cui era stato chiesto che genere di persona fossero, mostravano una maggiore disponibilità nell'accogliere lo stesso tipo di informazioni con un atteggiamento di curiosità verso quei dati che potevano aiutarli nel comprendere meglio loro stessi. In poche parole, se ci chiediamo che cosa, siamo più inclini all' "apertura" a nuove informazioni sul nostro conto, anche se sono negative, ma chiederci perché ci porta più facilmente alla "chiusura". Tasha Eurich avrebbe confermato questa posizione andando ad osservare il comportamento di soggetti che avevano riportato alti punteggi alla variabile consapevolezza di sè sia attraverso questionari self-report che tramite la valutazione di altri. È emerso che i soggetti con alti punteggi in autoconsapevolezza utilizzavano con maggiore frequenza nel loro linguaggio la parola "cosa" (circa 1000 molte), mentre la parola "perché" era presente meno di 150 volte. Tra i soggetti, una donna di 42 anni che aveva lasciato la carriera di avvocato quando aveva capito che quella strada non le forniva alcuna felicità, aveva usato queste parole per spiegare la motivazione durante l'intervista «Se ti chiedi il "perché" entri in una modalità vittimista. Quando non mi sento serena, chiedo a me stessa: "Che cosa sta succedendo?", "Che cosa provo?", "C'è un altro modo per vedere la situazione?", "Cosa posso fare per migliorare la situazione?"». Per sviluppare la consapevolezza di sé va costruita l'abitudine al chiedersi cosa e non perché. Nel primo caso siamo in grado di proiettarci sulle nostre risorse, nel secondo caso ci focalizziamo sui nostri limiti. Le domande che iniziano con perché incrementano emozioni negative, mentre quelle introdotte da "cosa" pare sviluppino la curiosità. Chiederci "perché" ci fa intrappolare nel passato e aumenta la ruminazione, chiederci "cosa" ci permette di focalizzarci sugli aspetti che possiamo modificare in funzione di un risultato più funzionale. Porre l'attenzione sul cosa e non sul perché contribuisce ad effettuare un più adeguato riconoscimento delle nostre emozioni. Invece di chiedermi: "Perché mi sento stressata, oggi?", mi chiederò: "Che cosa provo in questo istante?", ·Cosa posso fare per sentirmi meglio?". A quanto pare, è stato dimostrato che il solo tradurre le nostre emozioni in parole rispetto al semplice viverle e basta determina uno "spegnimento" della parte dell'amigdala deputata all'attivazione della risposta di attacco-fuga in presenza della rilevazione di una minaccia. Tuttavia, in determinati contesti va fatta eccezione. Per esempio, in un'organizzazione aziendale, se c'è stata su uno specifico progetto una perdita di clienti, è importante chiedersi perché questo si è verificato per evitare che vi siano ricadute significative. In questo modo, la pianificazione dei progetti successivi viene effettuata "correggendo" quelle variabili che sono intervenute nel determinare la perdita stessa. Quindi, le domande introdotte da perché sono fondamentali per comprendere meglio il contesto e l'ambiente che ci circonda, mentre le domande introdotte da cosa sono fondamentali per comprendere meglio noi stessi.
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